(Questo post è uscito originariamente sul blog di Educare alla bellezza, a questo link)
Era un’isola piccola, con un porto turistico molto movimentato d’estate. Era un posto per ricchi, dove attraccavano yacht e barche a vela ogni giorno. Le barche arrivavano piene di persone sorridenti, di tutte le età. Belli, alti, biondi, che mangiando nei ristoranti, comprando nei negozi, affittando barchette, biciclette e auto, garantivano all’isola la sopravvivenza per l’inverno.
Lei, che abitava in una casetta bassa, sulla collinetta giusto di fronte al porto, dalla quale vedeva bene il mare e parte dell’isola, le vedeva arrivare e sputare fuori gente sempre colorata e felice. Li vedeva sorridere, abbronzarsi e andare via.
Gente che spendeva soldi e spandeva il profumo del mondo oltre il mare. Il profumo del diverso, lucente come monete d’oro.
Lei ogni giorno in queste barche ci saliva per pulirle, perché i ricchi, si sa, le pulizie le fanno fare agli altri. Ed era un lavoro che non mancava mai: rendere ancora più lucenti le barche dei lucenti. Cercando di essere il più invisibile possibile.
Quindi, il profumo del mondo oltre il mare lo andava a respirare nelle lenzuola da cambiare, nei piatti da lavare, nei vestiti di ottima fattura lasciati come stracci vecchi sulle poltrone, nelle scarpe lanciate da una parte all’altra delle cabine. Nelle bottiglie di champagne aperte e nei calici sporchi di rossetto.
Sentiva il profumo da vicino, ne distingueva perfettamente tutte le sfumature e più lo conosceva, meno le interessava.
Non era mai andata dall’altra parte del mare, era nata e cresciuta sull’isola.
Suo padre era un pescatore. Suo marito era un pescatore. Lei faceva le pulizie negli yacht, badava alla casa e guardava il mare. Pensando con distanza a quel mondo che identificava ormai con i profumi delle pubblicità.
Era brutta, dicevano. Aveva i capelli di un indefinito marrone scuro, non li teneva mai sciolti e dal parrucchiere c’era stata tre volte in tutta la sua vita. Li teneva sempre chiusi in una treccia stretta stretta, divisi da una riga in mezzo, tutti tirati. Così tirati che sembrava che le si tirasse anche tutta la pelle ogni volta. E non sorrideva mai. Non si truccava mai. Era nascosta dietro a degli occhiali mai stati alla moda, dalla montatura nera e pesante. I suoi vestiti nell’armadio andavano dal blu notte al grigio topo, tanto nero e marrone. Niente colori accesi, né pastello. Gli occhi scuri, la pelle olivastra. Non era grassa, non era alta. Era una donna col corpo di chi ha sempre lavorato e ha partorito.
Aveva 45 anni, un marito che le rivolgeva la parola solo per chiederle da mangiare, una figlia che si era sposata con uno che viveva dall’altra parte del mare ed era andata via. Aveva pochissimi soldi perché sull’isola non ne servivano mai veramente tanti, una casa che dava sul porto e il lavoro: lei era la donna che puliva gli yacht.
Si muoveva tra le barche del piccolo porto dell’isola silenziosamente, la conoscevano tutti, sapevano tutti chi era e perché era lì. Quando non era indaffarata a pulire lo sporco degli altri si sedeva su una panchina sul molo principale e guardava dall’altra parte.
No, lei non voleva andarci, le bastava il profumo per sapere che sarebbe stato terribile. Sua figlia non era più tornata. Partita una volta per un colloquio di lavoro e svanita. Aveva messo piede sull’isola solo per sposarsi, con quest’uomo che le sorrideva, che le teneva la mano e che l’aveva portata via.
Era stato bene così; sarebbe finita anche lei a pulire gli yacht e a difendersi dalle mani di un marito sempre troppo ubriaco per sorriderle. E a non desiderare niente, abbandonata all’immobilità. Su un’isola con un porto affollato, dove l’immobilità era una contraddizione.
Mentre intorno il porto esplodeva di vita, di incontri, di speranze, abbracci, ricchezze, lei viveva immobile. Una perfetta vita triste. Senza nemmeno la speranza di un cambiamento. Senza nemmeno la volontà di un cambiamento.
Poi un giorno mentre puliva l’ennesimo yacht, arrivato al porticciolo la sera prima, l’elastico della treccia si ruppe.
Su quella barca avevano fatto festa grande quella notte. C’erano bicchieri ovunque, residui di cibo e mozziconi. Vestiti sparsi e la puzza tipica di una notte di baldoria.
Il proprietario era un uomo sulla cinquantina, alto, perennemente profumato. Magro, molto, col naso aquilino e gli occhi un po’ elfici, che sorridevano poco, ma bene. Le mani affusolate, da medico, da musicista. C’era un pianoforte su quella barca.
Era con amici vari. Gente ricca, avvocati, imprenditori. Dei cliché ambulanti, visto che si accompagnavano alle solite donne filiformi troppo più giovani, che ridacchiavano e non erano neanche capaci di rimettersi a posto le mutande, dopo che se le erano fatte togliere per pagarsi la vacanza in barca.
Era un disastro, doveva passarci almeno tre ore. Tutti erano usciti per shopping locale e un pranzo di pescato del giorno. Non si era accorta che lui, l’uomo era rimasto lì, a sorseggiare un whiskey a metà mattina e a guardare il mare.
Lei lo conosceva già, era un cliente abituale ormai. Tornava più volte durante le estati. Con la sua bella barca, gli amici abbronzati, le donne sceme. Non si erano mai rivolti la parola se non per parlare del compenso, degli orari, del tempo necessario. Era gentile e la fissava sempre come se si aspettasse qualcosa da lei, di buono, ma tutti erano gentili con la nera e piccola signora che rimetteva a posto il disordine.
L’elastico si era rotto e, tra il caldo soffocante delle cabine, la stanchezza, quella lì che prende quando non sei propriamente felice, ma diciamo che ti accontenti, si era ritrovata appoggiata a un mobile, coi capelli sciolti, gli occhiali tolti per qualche minuto per passarsi una mano umidiccia su una fronte ancora più umidiccia e il vestito nero appiccicato addosso.
Uscì fuori da quella scatoletta asfissiante per prendere un po’ d’aria. E si scontrò con l’uomo che stava rientrando, con una camicia aperta fino a metà petto, pantaloni di lino, i capelli un po’ grigi spettinati e la faccia di chi ha dormito poco e male.
Lui la fissò, prima senza attenzione, mormorando scuse, e poi si bloccò e rialzò gli occhi e le disse: “Ecco, lo sapevo. Lei è bellissima”. E allungò una mano per toccare da vicino quello che ora stava guardando come un fenomeno da baraccone.
“No”, gli disse e corse fuori. Lui la bloccò e la fece fermare davanti allo specchio.
I capelli, tutti quei capelli erano sciolti sulle spalle fino a metà schiena, con le onde delle trecce quotidiane. Il vestito nero che aveva quel giorno era semplice, un leggero prendisole senza maniche. Era il viso la vera cosa sconvolgente. Senza la durezza della treccia, senza la pelle tirata, senza occhiali, era come se si fosse accesa una luce su tutta la sua faccia e di conseguenza su tutta lei stessa. Poche rughe, giusto quelle che segnavano l’età, la pelle fresca, pulita, di chi non si è mai impastricciato e quindi non deve correre ai ripari. E gli occhi, finalmente liberi, finalmente grandi. Scintille.
“Ti vedi?”
“Sì.”
“Lo sapevi?”
“No.”
“Vieni con me oggi, esci con me.”
“No.”
“Solo oggi. Non voglio portarti a letto.”
“Non ci verrò”
“Fammi fare una prova.”
“No.”
“Domani io partirò e tu tornerai a pulire gli yacht con la tua treccia stretta e gli occhiali. Oggi sii una persona diversa.”
Ci andò.
Nessuno la riconobbe, né lei si accorse di qualcuno, perché il mondo senza occhiali assumeva sfumature poco definite. Per la prima volta in vita sua diede il controllo a un’altra persona.
Lui le raccontò che era nato sul mare, dall’altra parte, e aveva una società di consulenza per rimettere a posto aziende in difficoltà. Incredibile quanto ci fosse bisogno di chi risolvesse problemi per mestiere. Lo pagavano tantissimo. Così tanto che poteva permettersi varie case, al mare, in montagna, in città diverse. Aveva quella barca, ma anche un’altra, che si chiamava “My queen”.
Le parlò a lungo di quel motoscafo che non era lussuoso come quella che aveva pulito lei, anzi. Era molto più piccolo e malridotto. Era uscito in mare solo sei volte e il resto del tempo la teneva in rimessa, spendendo un sacco di soldi, senza mai tempo e voglia di prendere e scappare da solo o al massimo con una compagnia ridotta e molto selezionata.
“My queen” era prigioniera. La sua prigioniera.
Le raccontò della sua vita, di come era venuto su dal niente, di come aveva dovuto lottare, scappare, accettare compromessi per arrivare dove era. E di come non avesse mai perduto l’entusiasmo e di come cercasse le scintille – la vita – nelle cose e nelle persone intorno a lui.
“Suoni il pianoforte?”
“Sì. Ho imparato da solo, ho cominciato e non ho smesso più. A casa mia ne ho uno molto bello.”
“Perché vai in giro con queste persone se poi però preferisci passare la giornata con me che neanche sai chi sono?”
“Perché do alle persone quello che si aspettano da me, per poi vivere il resto a modo mio.”
Lei gli raccontò che l’isola era tutto quello che conosceva. Non si era mai mossa da lì. Anche per partorire sua figlia non era stato necessario andare in un ospedale dall’altra parte del mare. Non aveva studiato. La sua vita era assicurarsi che il marito avesse quello di cui c’era bisogno e prendersi cura di sua figlia, finché era stata lì.
“Vai a trovare tua figlia?”
“No.”
“Ci andrai prima o poi?”
“No.”
Gli raccontò che d’inverno l’isola era sì vuota, ma bella, tutta dei propri abitanti. Se d’estate l’arrivo delle barche era rassicurante perché garantiva la sopravvivenza, d’inverno guardare il porto fermo era ancora più rassicurante per lei, perché da quel mare non arrivavano stranezze, pericoli, minacce. Grilli per la testa.
“Perché hai paura dei grilli per la testa.”
“Perché non portano niente di buono.”
“Hai mai provato?”
“No. Tranne oggi.”
“Ti senti in pericolo ora?”
“Sì.”
Lui le disse che doveva provare. Doveva sorridere. Non perché era bellissima senza quella treccia e quegli occhiali, ma perché era così che andava. Tutti dovevano sorridere e cercare il loro vero posto nel mondo, provarci almeno, prima di imprigionarsi. Anche se il mondo, tante volte non era un bel posto e lui poteva raccontare mille storie finite male.
“Quest’isola, questo porto, questo posto sono il mio posto.”
Le offrì il pranzo, nel ristorante più lussuoso, dove nessuno la riconobbe ancora. Voleva comprarle dei vestiti bianchi, rosa, azzurrini, quelli tipici delle zone di mare. Lei rifiutò.
Lui le disse che doveva andare a trovarlo, l’avrebbe portata al cinema – avevano parlato di cinema – a vedere l’opera – che lei sentiva su dei vecchi dischi di famiglia. Le disse che, se non avesse cambiato idea, l’avrebbe riportata al suo posto, sull’isola.
Lei disse no.
“Ognuno ha il suo posto ed è sacrosanto rispettarlo. Io, lontana da qui morirei.”
“Se l’essere umano avesse fatto questo dall’inizio dei tempi, saremo ancora nelle caverne a cercare di procurarci il fuoco.”
“Questo è il mio posto.”
Si lasciarono poco prima del tramonto. Lui le accarezzò i capelli e le disse ancora: “Sai come trovarmi, liberati”.
Lei lo ringraziò e disse che suo marito aspettava la cena.
Si avviò verso la casetta sul porto, forzando di nuovo i capelli nella treccia, rimettendosi gli occhiali, in modo da rivedere il mondo ben definito come lo conosceva.
La mattina dopo la barca e i suoi occupanti non c’erano più. Lei fu chiamata a pulire un altro yacht. Stavolta mettendo in borsetta un elastico in più, per sicurezza.
La vita continuò immobile per altre settimane. Nera nei vestiti anonimi, scura in volto, pronta a pulire, lavorare, non pensare.
Una mattina presto le suonarono alla porta.
“È arrivata una barca per te!”
Corse al porto stranita e lì c’era un motoscafo, bianco, non nuovissimo, ma bello. “My queen”.
“Mi hanno detto che è di proprietà tua, c’è il posto barca pagato per un po’”.
Salì a bordo e trovò un bigliettino.
“Nella rimessa era mia prigioniera. Tu sei prigioniera di te stessa. Quando vorrai provare ad andare via o magari fare anche solo una circumnavigazione dell’isola, avrai a disposizione la ‘mia regina’.”
“È questo il mio posto, disse lei a bassa voce”.
Però respirò il costoso profumo dell’uomo della quale la barca era impregnata e sorrise. E poi, guardandosi intorno, pensò che “My queen” avesse bisogno di una bella pulita.